La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 125 del 19 maggio 2022, ha dichiarato incostituzionale l’art. 18, settimo comma, secondo periodo, dello Statuto dei Lavoratori nella parte in cui tale norma prevedeva la reintegrazione – nel caso di illegittimo licenziamento per giustificato motivo oggettivo – solo in ipotesi di “manifesta insussistenza” del motivo addotto.
La questione di legittimità è stata sollevata dal Giudice del Lavoro di Ravenna con ordinanza del 6 maggio 2021, nell’ambito di un giudizio di opposizione promosso dal datore di lavoro secondo il “rito Fornero” avverso una ordinanza dello stesso Tribunale che – in un caso di licenziamento per giustificato motivo – lo aveva condannato alla reintegrazione del lavoratore. L’opposizione era basata proprio sulla asserita non manifesta insussistenza del motivo oggettivo addotto: di qui la rilevanza della questione nel giudizio a quo.
Come evidenziato sinteticamente nella parte in fatto della sentenza della Corte, alcuni aspetti della vicenda oggetto di tale giudizio a quo rendevano il licenziamento esaminato, e la relativa opposizione, particolarmente problematici: infatti, il lavoratore, nel giro di alcuni mesi, era stato licenziato due volte per giusta causa e una volta per giustificato motivo oggettivo, venendo sempre reintegrato. Ciò lascerebbe ipotizzare una forte conflittualità dei rapporti tra le parti, e la plausibile strumentalità del motivo oggettivo addotto.
La Corte Costituzionale ha fatto propri i profili di illegittimità sollevati dal giudice rimettente. Anzitutto, ha ritenuto violato il principio di uguaglianza ex art. 3 Cost.: la gradualità della tutela nella fattispecie di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo (reintegrazione solo in caso di manifesta insussistenza; indennizzo negli altri casi) è ingiustificata, tenuto conto che:
a) in ipotesi di licenziamento per ragioni soggettive la reintegra non richiede alcuna manifesta illegittimità del motivo;
b) analogamente, in ipotesi di licenziamento collettivo, il vizio sostanziale (violazione dei criteri di scelta) comporta sempre la reintegrazione, a prescindere dalla gravità di tale vizio.
Ulteriore profilo di irragionevolezza è stato rinvenuto nella parte in cui l’art. 18, tutelando il lavoratore con la reintegrazione nei soli casi di motivo illegittimo “manifesto”, provoca una sorta di parziale inversione dell’onere della prova, costringendo il lavoratore a dimostrare, o quanto meno argomentare, la gravità del vizio. Senza contare che la natura palese dell’insussistenza del motivo non incide sul disvalore del comportamento datoriale, ma solo sulla facilità dell’accertamento del vizio. Sotto questo profilo, la motivazione della sentenza richiama in più passaggi la precedente pronuncia, n. 59/2021, con cui la stessa Corte Costituzionale ha dichiarato l’art. 18 comma 7 incostituzionale nella parte in cui prevedeva la possibilità del giudice, non l’automaticità, della reintegrazione nel caso di manifesta insussistenza del motivo oggettivo.
L’esito dei due interventi della Corte Costituzionale sull’art. 18 comma 7 St. Lav. (la sentenza n. 59/2021 e quella in commento, n. 125/2022) ci restituisce una norma profondamente modificata rispetto alla versione originaria post riforma Fornero. Originariamente, in ipotesi di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, la reintegrazione costituiva una ipotesi di fatto residuale, se non una extrema ratio, prevista a discrezione del Giudice (che, per vero, nella prassi applicativa optava sempre per disporla), e solo in caso di manifesta insussistenza, ossia di vizio palese/eclatante del licenziamento. In tutti gli altri casi, come regola generale, era invece prevista la tutela economica (indennizzo compreso tra 12 e 24 mensilità). La Corte ha capovolto l’assetto della norma, facendo diventare la reintegrazione la tutela normale in caso di licenziamento individuale per ragioni oggettive, e residuale la tutela indennitaria.